Quando ero ragazzo suonavo il piano nella scuola di musica del mio paese di montagna. Una sera d’inverno bussò alla porta della nostra scuola un uomo con la pelle scura e un lungo mantello. Non parlava la nostra lingua, ma batteva il suo tamburo come se conoscesse il ritmo del cuore di ciascuno di noi. Suonammo tutti insieme fino al mattino, quando l’uomo misterioso diede a ciascuno dei miei compagni di scuola un piccolo bozzolo, piccolo come l’occhio chiuso di un bambino che sogna. A me, invece, ne diede uno più grande: era grosso come un pugno, e nel porgermelo alluse alle dimensioni del mio pianoforte, e sfiorò con le dita i suoi numerosi tasti bianchi e i tasti neri, con uno sguardo serio negli occhi, tristi e speranzosi a un tempo. Quando si voltò per andarsene, vidi che sul suo mantello era disegnato il profilo di un elefante, le lunghe zanne verso il cielo e la proboscide arricciata come un punto di domanda. Fu l’ultima immagine che ebbi di lui. Per giorni fui orgoglioso di aver ricevuto il bozzolo più grande, d’altronde avevo sempre pensato di suonare lo strumento più importante dell’orchestra e mi vantai con tutti ad alta […]